DONNA DEL RAJASTHAN

 

Lo sguardo in camera, che fissa e vede il fotografo, poi, tutti quelli che avranno  davanti la fotografia, è un tratto pertinente molto particolare del linguaggio fotografico e filmico.

Va evitato nel cinema di finzione e quando si simula lo sguardo "dal buco della serratura" perché denuncia subito che il soggetto è coinvolto direttamente nella costruzione dell' immagine, denota consapevolezza e forse complicità con 1' operatore.

Sembra che le fotografie delle donne del Rajasthan di Montali si reggano proprio su questo, su un riconoscimento reciproco tra le persone, le donne a cui il lavoro è dedicato, e il fotografo che rinuncia al molo di documentarista impersonale ed estraneo,  spostando  il piano  del  racconto  dal  reportage  etnografico  a quello emozionato del ritratto dell' -altro da sé-.

Certo, le belle e colorate immagini rendono gli spazi, i rituali quotidiani, il lavoro(non c'è il tentativo di ricostruire un Eden esotico) e i rapporti personali e familiari ma la chiave di accesso principale resta quella dell' ammirazione, dell' articolazione  della bellezza.

Il raccolto con i mannelli che fanno esplodere lo spazio attorno ai costumi colorati come in una danza, i volti e i corpi sempre allestiti e scritti dai monili, dal trucco come dai gesti o dai segni del tempo e gli sguardi che perforano a volte un velo, tutto costruisce un' idea di bellezza rappresa sui corpi, che si sottrae ad ogni velleità di allestimento estremo.

Viene in mente molta fotografìa diretta, ma siamo agli antipodi della Blind Woman di Paul Strand, e anche molto distanti dagli attimi rubati di Henri Cartier-Bresson, anche se la freschezza e la costruzione geometrica attorno ai gesti li richiamano.

Si ha la precisa sensazione che siano queste donne a condurre il gioco, che sia il loro sguardo a folgorare e fotografare 1' uomo con la camera e, fortunatamente, noi che le vediamo. 

Paolo Barbaro